Gestione Impresa

Private equity: cosa fare per far crescere le aziende non quotate

Private Equity

Già 113 operazioni tra gennaio ed agosto 2018, tra cui Versace, Magneti Marelli e Italo-Ntv

Nonostante le tensioni politiche e la forte incertezza dei mercati finanziari gli investitori di private equity, cioè quelli che investono nel capitale di rischio delle aziende non quotate (né sui mercati regolamentati né su quelli non regolamentati, come per esempio Aim Italia) nella prima parte del 2018 in Italia hanno lavorato molto e, soprattutto, sono tornati a chiudere affari di dimensioni notevoli.

Lo ha evidenziato il Report di BeBeez sui primi otto mesi di private equity, pubblicato a inizio settembre, calcolando che da inizio gennaio sino a fine agosto si erano contate 113 operazioni di private equity nel senso più ampio del termine, considerando anche acquisizioni da parte di aziende già in portafoglio dei fondi (in gergo anglosassone, add-on), business combination con Spac e operazioni in club deal. Questa attività condotta in otto mesi non è lontana per numero di deal da quella di tutto lo scorso 2017, quando gli operatori di private equity avevano annunciato 136 investimenti.


Lo stesso trend è stato sottolineato dall’Associazione del private equity, venture capital e private debt (AIFI) a fine settembre, presentando i dati del semestre che indicavano investimenti dei fondi nel periodo per poco meno di 2,9 miliardi di euro (da 1,9 miliardi del primo semestre 2017), spalmati su 160 operazioni (da 139 deal), di cui 1,462 miliardi sono rappresentati dai cosiddetti mega-deal, cioè operazioni che hanno richiesto investimenti superiori ai 150 milioni di euro di equity, mentre nel primo semestre del 2017 i mega-deal avevano rappresentato soltanto 915 milioni di euro e nel secondo semestre soltanto 683 milioni. Tra le operazioni più grandi condotte da inizio anno da operatori di private equity ci sono quelle su Recordati, su Italo-Ntv, su Ei-Towers, su Versace e su Magneti Marelli.

Ma se i volumi più grandi sono fatti appunto da investimenti su grandi aziende, che si concretizzano nella gran parte in cosiddetti buyout, cioè acquisto della totalità o della grande maggioranza del capitale delle aziende target, in termini di numero le operazioni più frequenti riguardano le piccole e medie imprese, che decidono di ricorrere a un fondo di private equity per finanziare la crescita, per favorire un passaggio generazionale, per sostituire dei soci che vogliono uscire dalla compagine societaria oppure per liquidare del tutto i soci precedenti e cominciare un nuovo percorso con un altro socio o gruppo di soci. Non solo: possono esserci anche situazioni di crisi e tensione finanziaria, che richiedono che qualcuno immetta in azienda nuova finanza e ne supporti il rilancio; ci sono infatti fondi che di mestiere fanno proprio questo.

 

Per definizione i fondi di private equity investono nel capitale di aziende non quotate o di aziende quotate che puntano a togliere dal listino e riportare a essere private e possono comprare partecipazioni di minoranza, di maggioranza o l’intero capitale. I fondi in questione sono in genere dei fondi chiusi, che cioè raccolgono da investitori istituzionali o qualificati impegni di investimento per un certo valore e poi, una volta annunciato il “closing” definitivo della raccolta, non la riaprono più, ma passano alla fase dell’investimento e poi a quella di disinvestimento.

Obiettivo dei fondi, infatti, è quella di apportare capitali, capacità manageriali e relazioni alle società partecipate, in modo tale da favorirne la crescita e l’aumento di valore nel tempo, così da poter poi vendere la loro partecipazione in media 3-5 anni dopo l’ingresso nel capitale, e ottenere un rendimento per i loro investitori e per il management team del fondo stesso, a cui fa capo la società di gestione.
Proprio questo approccio dei fondi, però, può spaventare alcuni imprenditori, che quindi in alcuni casi possono preferire un diverso tipo di interlocutore: non un fondo di private equity strutturato, ma piuttosto una holding di investimento, che non abbia tempi prestabiliti di durata dei propri investimenti; oppure un veicolo di investimento organizzato ad hoc (club deal) da parte di un gruppo di investitori che spesso sono a loro volta imprenditori e manager, che da un lato possono essere puri soci finanziari ma dall’altro possono anche offrire know-how, se gli investimenti in questione riguardano settori nei quali hanno esperienza diretta.

Antesignano di questo tipo di approccio è stato Tamburi Investment Partners, holding di investimento quotata a Piazza Affari, che si è fatta promotrice di vari club deal su aziende anche di medie e grandi dimensioni.

Inoltre sempre più spesso si vedono situazioni nelle quali i fondi di private equity si fanno promotori di aggregazioni di imprese, dove gli imprenditori delle aziende target reinvestono nella holding e diventano a loro volta investitori in altre aziende target finendo poi per creare un gruppo di dimensioni significative, in grado di sfruttare sinergie, economie di scala e fare il salto internazionale che spesso da sole non sono in grado di fare.

Si veda per esempio il gruppo Italian Design Brands nel segmento arredamento di design promosso personalmente da alcuni veterani del private equity insieme ai fratelli Gervasoni, fondatori dell’omonima società; il gruppo Design Holding che è appena stato creato da Investindustriale Carlyle per creare una piattaforma di aggregazione sempre nel settore arredamento dsign partendo da B&B Italia, Flos e Poulsen, coinvolgendo via via gli imprenditori; il gruppo Imprima nel settore della stampa per tessuti promosso da Wise sgr; o il gruppo Italcer nel settore delle ceramiche pavimenti e arredo bagno promosso da Mandarin Capital Partners.

 

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